PENALE
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La colpa di organizzazione come criterio fondamentale per individuare la responsabilità penale dell'ente per gli infortuni sul lavoro.

4 DICEMBRE 2022 BY Avvocata Rossana Lugli

Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione è tornata sull’importante tema della responsabilità dell’Ente (e quindi delle Società) per gli infortuni occorsi ai dipendenti durante l’attività lavorativa (Cfr. Cass. Pen., sentenza n. 39615 del 26.01.2022, depositata in data 20.10.2022).

Nel caso concreto, nel corso di una lavorazione intervenuta in una notte di settembre 2008 all’interno di una società siderurgica, un dipendente, membro di una squadra di 4 operai, mentre si trovava sulla sommità di un silos, schiacciava la testa contro lo spigolo di una balaustra, riportando lesioni gravissime, comportanti una invalidità pari al 75 %.

A seguito di tale incidente la Società è stata tratta a giudizio per rispondere dell’illecito di cui agli artt. 5 e 25-septies del D.Lgs. 231/01 per violazione delle norme poste a tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Nello specifico si contestava alla Società:
- di aver omesso di predisporre ed attuare il modello 231 di organizzazione, gestione e controllo previsto dalla legge e le misure di prevenzione idonee a scongiurare la commissione di infortuni sul lavoro,
- l’assenza di un’adeguata formazione ai dipendenti,
- l’assenza nel Documento di Valutazione dei Rischi di un’apposita disciplina dell’utilizzo del carro ponte e del silo.

Al termine del giudizio di primo grado l’Ente veniva condannato dal Tribunale alla pena pecuniaria di 100.000 euro, confermata dalla Corte di Appello di Bologna.
A seguito del ricorso presentato dai difensori della Società, la Corte di Cassazione ribaltava le precedenti pronunce di primo e secondo grado disponendone l’annullamento, sulla base della mancata analisi e individuazione di una “colpa di organizzazione” della Società.
Nello specifico la Suprema Corte ha ricordato, nella pronuncia in commento, come la responsabilità degli Enti disciplinata dal Decreto Legislativo 231/01, sia del tutto autonoma, ma allo stesso tempo collegata ad un reato commesso da una persona fisica, che abbia agito “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, e in cui rivesta una posizione apicale ovvero subordinata.
Con riferimento specifico al caso di specie, la Corte ha poi approfondito il tema dell’interesse o vantaggio dell’Ente che deve essere individuato nei reati colposi, quali appunto le lesioni o l’omicidio colposi occorsi a seguito della violazione delle norme in materia di sicurezza. Ricorda infatti che rispetto a tali reati non vi può essere alcun vantaggio dell’Ente rispetto alla morte o alle lesioni del lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro, posto che da tali eventi “l’ente non ha assolutamente nulla da guadagnare, nè sul piano economico, nè sul quello di immagine”. In queste ipotesi, occorre pertanto attenzionare la violazione delle norme antinfortunistiche per verificare se questa è stata determinata dall’interesse di far ottenere alla società un risparmio di spesa ovvero una massimizzazione della produzione o comunque se da tale violazione è conseguito per l’ente un vantaggio effettivo e non irrisorio.

Secondo la Corte questo è il primo aspetto che i giudici del merito hanno omesso di analizzare compiutamente limitandosi ad individuare, nella sola scelta di operare in orario notturno, l’interesse dell’ente all’ottimizzazione della produzione, con conseguente compressione dei livelli di sicurezza, (come se tale scelta, in assenza però di specifici accertamenti, comportasse in automatico una violazione delle norme antinfortunistiche determinata dall’intenzione di massimizzare la produzione).

Si tratta di una conclusione errata dei giudici di primo e secondo grado.
Non solo perché a riguardo nessun approfondimento è stato svolto nel corso del processo in grado di affermare la scorrettezza e la pericolosità di operare di notte ma, soprattutto, perché tale conclusione è conseguita – di fatto - all’omessa indagine in ordine al requisito della colpa di organizzazione della Società che invece “assolve la funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica” e che deve essere intesa quale violazione di regole cautelari.
Infatti, specifica la Corte, “la responsabilità degli enti può dunque essere definita come una vera e propria colpa di organizzazione, caratterizzata dal malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta - mediante adeguati modelli - a prevenire la commissione di reati”.
E sul punto specifica ancora, riprendendo un proprio precedente, che “la colpa di organizzazione è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”. Ovvero, il modello organizzativo 231 (cfr. SS.UU. 38434/2014).
In altre parole, ribadisce la Corte, la colpa di organizzazione è un requisito necessario per l’individuazione della responsabilità dell’ente.
Risulta quindi necessaria e fondamentale, per valutare la responsabilità dell’ente, un’indagine in ordine “al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema di prevenzione” degli infortuni sul lavoro, e dei reati di lesioni ed omicidio colposi conseguenti alla violazione della normativa antinfortunistica.

Ed occorre altresì un’indagine su quale sia stata l’incidenza dell’assetto organizzativo della Società rispetto alla verificazione dell’infortunio.

La Corte svolge poi un passaggio ulteriore sul punto, affermando che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli 231 non può considerarsi di per sé elemento costitutivo del reato, ma “integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione”.

Ovvero, nel caso di mancata adozione del Modello 231, esiste una sorta di presunzione di carente organizzazione aziendale.

Presunzione che, tuttavia - precisa la Corte - deve essere comunque provata “specificamente” dall’accusa e che, allo stesso tempo, può essere vinta dall’Ente che dimostri l’assenza di una colpa di organizzazione nella causazione dell’infortunio.

Dai principi sopra riportati si ricava, necessariamente, che l’adozione di un Modello 231 e dei conseguenti presidi permette alla società disvincolarsi dalla presunzione di colpa organizzativa. E per converso, l’assenza del Modello 231 comporta la presunzione di colpa di organizzazione, che certamente deve essere provata dall’accusa ma il cui rilievo diventa facile in caso di un infortunio grave.

Per la difesa dell’ente privo del modello 231, infatti, appare una probatio diabolica, (cioè difficilissima ma non impossibile) quella di dimostrare che l’ente ha comunque fatto tutto in quanto in suo potere per evitare e prevenire la commissione di reati, nella specie di infortuni, gravi. Infine, per completezza informativa si precisa che il procedimento penale in parola è proseguito solo nei confronti dell’ente in quanto il reato presupposto (lesioni colpose) si è estinto per prescrizione nei confronti delle persone fisiche apicali.

Infatti, mentre il reato soggiace alle normali regole della prescrizione, per cui decorso un terminato periodo di tempo senza che intervenga una sentenza definitiva, lo stesso si estingue, diversamente, l’illecito imputato all’ente ai sensi del D.Lgs. 231/01, una volta contestato, diventa di fatto imprescrittibile e dunque permette la perseguibilità anche a distanza di molti anni e, come nel caso di specie, che una sentenza di condanna intervenga a distanza di oltre 14 anni.



Avvocata Rossana Lugli



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