PENALE
MAG25
Consiglio di Amministrazione e responsabilità reati tributari

IL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE SENZA DELEGHE: RESPONSABILITÀ SOLIDALE PER I REATI TRIBUTARI E OPERAZIONI GIURIDICAMENTE INESISTENTI

1. Il recente intervento della Corte di cassazione sulla responsabilità penale del Consiglio di Amministrazione privo di deleghe.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 35314, depositata in data 23 agosto 2023, è tornata sul tema della responsabilità dei componenti del Consiglio di Amministrazione nel caso in cui al suo interno non sia stato nominato alcun organo delegato (1)[cite: 53]. La Cassazione è intervenuta a seguito del ricorso presentato da uno degli indagati avverso il provvedimento con il quale il Tribunale di Latina, in funzione di giudice del riesame, aveva confermato il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca, disposto in relazione ad alcuni reati tributari, sui beni dell'indagato[cite: 54]. Nello specifico si contestava a quest'ultimo, membro di un Consiglio di Amministrazione al cui interno non erano state rilasciate deleghe (2)[cite: 55], di aver concorso, unitamente agli altri consiglieri, nei reati di cui agli artt. 2 e 8 del D.Lgs. 74/2000, quindi di essersi avvalso, nelle dichiarazioni fiscali, di fatture per operazioni inesistenti, nonché di aver emesso e rilasciato fatture della medesima natura, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto ovvero sul reddito delle persone giuridiche[cite: 56]. Occorre precisare in questa sede che l'art. 12-bis D.Lgs. 74/2000 disciplina la confisca obbligatoria in materia di reati tributari stabilendo che nel caso di sentenza di condanna (o di patteggiamento) "è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato"[cite: 57]. La norma prevede altresì, qualora non sia possibile la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, la c.d. confisca "per equivalente", che si applica sui beni di cui il reo ha la disponibilità in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato (3)[cite: 58, 59]. Per scongiurare l'eventualità che l'indagato/imputato disperda prima della conclusione del procedimento penale i beni sui quali deve essere ordinata la confisca (diretta o per equivalente), su questi può essere disposto il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321, comma 2 c.p.p. (4)[cite: 60, 65, 66]. Di norma ciò avviene già nel corso delle indagini preliminari su richiesta del Pubblico Ministero e con decisione del Giudice per le Indagini Preliminari (5)[cite: 66]. La richiamata disposizione del codice di rito stabilisce, infatti, che il Giudice può disporre il sequestro preventivo "delle cose di cui è consentita la confisca"[cite: 67]. Per meglio comprendere questo istituto, si precisa che il sequestro preventivo è una misura cautelare reale, che comporta un vincolo di indisponibilità della cosa sottoposta a sequestro e che può essere applicata solo in presenza del fumus comissi delicti, cioè di "elementi di fatto, quantomeno indiziari, che consentano, pur tenendo conto della fase processuale [...] di ricondurre l'evento punito dalla norma penale alla condotta dell'indagato" (6)[cite: 68]. Alla luce di quanto finora illustrato, in assenza di altre indicazioni in sentenza, si deve ritenere che nel caso di specie il sequestro preventivo per equivalente abbia riguardato i beni nella disponibilità del componente del Consiglio di Amministrazione (7)[cite: 69, 78], tendenzialmente per un importo pari all'imposta evasa con l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (il profitto) e all'eventuale prezzo percepito per l'emissione delle fatture della medesima natura (8)[cite: 69, 79]. Il ricorrente ha contestato il provvedimento disposto nei suoi confronti censurando l'asserita sussistenza del fumus commissi delicti[cite: 70]. Nello specifico l'indagato ha lamentato come gli indizi di colpevolezza a suo carico fossero stati ricavati nel provvedimento originario, poi confermato dal Tribunale del riesame di Latina, soltanto sulla base di una sorta di "responsabilità da posizione", in relazione al ruolo di amministratore da lui ricoperto in un Consiglio di Amministrazione in cui non erano state conferite deleghe[cite: 71]. La pronuncia in commento, con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso, ha offerto alla Corte di cassazione l'occasione di pronunciarsi su alcuni interessanti temi, che saranno oggetto della presente trattazione: (i) in primo luogo, sulla responsabilità dei membri del Consiglio di Amministrazione nel caso in cui non siano state conferite deleghe al suo interno e, (ii) in secondo luogo, in ordine alla categoria di elaborazione giurisprudenziale delle operazioni ritenute giuridicamente inesistenti, idonee ad integrare i delitti di cui agli artt. 2 e 8 del D.Lgs. 74/2000[cite: 72, 83, 84].

2. La responsabilità degli amministratori nel Codice civile.

Al fine di comprendere compiutamente il ragionamento svolto dai giudici di legittimità nella sentenza in commento, e quindi individuare i confini della responsabilità (civile e penale) degli amministratori, si rende necessaria l'analisi delle norme che regolano la materia, in primo luogo dell'art. 2392 del Codice civile[cite: 85, 86]. Secondo tale disposizione "gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze"[cite: 86]. La loro responsabilità è solidale "verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri", ma solo qualora, precisa la norma, non "si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori"[cite: 87]. Perciò, in via generale, è prescritto che tutti gli amministratori, con e senza deleghe, rispondano solidalmente per fatto proprio dei danni cagionati alla società dall'inosservanza del generale dovere di diligenza[cite: 88]. Tuttavia, qualora all'interno del Consiglio di Amministrazione siano state conferite deleghe ad uno o più soggetti (ad esempio ad un comitato esecutivo o ad uno o più amministratori delegati), se l'atto negligente che ha cagionato il danno rientra nelle attribuzioni oggetto di specifica delega, viene meno la responsabilità solidale di tutti gli altri consiglieri privi di delega[cite: 89]. In tal caso risponderanno soltanto i consiglieri muniti di delega comprensiva di quello specifico atto[cite: 90]. L'art. 2392 c.c. prosegue prevedendo anche un'ipotesi in cui rivive la responsabilità solidale di tutti i componenti del Consiglio di Amministrazione, anche nel caso di conferimento di deleghe al suo interno[cite: 90, 91]. La disposizione stabilisce, infatti, che gli amministratori "sono solidalmente responsabili [n.d.r. solo] se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose"[cite: 92]. Pertanto, in un Consiglio di Amministrazione che ha conferito al suo interno delle deleghe, gli amministratori non esecutivi ma anche quelli esecutivi che non hanno compiuto l'atto "incriminato" possono rispondere per i fatti pregiudizievoli (in sede civile e penale) commessi da un amministratore delegato, se erano a conoscenza della situazione e non hanno fatto quanto in loro potere per evitarne la commissione (9)[cite: 93, 94, 101]. Il nocciolo della questione, per comprendere appieno i confini e le esimenti della responsabilità degli amministratori, riguarda pertanto il significato da attribuire al concetto di "diligenza", gravante su tutti gli amministratori, nonché al concetto di "fatti pregiudizievoli" la cui conoscenza fa scattare il dovere di agire degli stessi[cite: 95].

3. La diligenza richiesta all'amministratore.

Rispetto al significato del concetto di "diligenza", occorre precisare che lo stesso sembra riempirsi di contenuti diversi a seconda che il Consiglio di Amministrazione abbia conferito o meno deleghe al suo interno e in relazione all'amministratore con o senza deleghe[cite: 96]. Non essendo prevista dalla normativa una specifica casistica, il problema di stabilire che cosa l'amministratore debba fare per adempiere al dovere di diligenza può essere risolto in realtà solo in concreto avuto riguardo alle circostanze del caso (dimensioni e settore di attività, struttura organizzativa, tempo a disposizione, rapporti con le Autorità, etc.)[cite: 97]. In ogni caso, rispetto a questo tema, viene in soccorso l'art. 2381 del Codice civile[cite: 98]. Secondo tale norma, infatti, tutti gli amministratori, con o senza deleghe, "sono tenuti ad agire in modo informato" (10)[cite: 99, 100]. Si tratta di un obbligo che deve essere adempiuto mediante la facoltà, prevista dalla stessa norma, di chiedere agli amministratori delegati di fornire precise informazioni e chiarimenti relativi alle scelte gestionali della società[cite: 100]. Non solo[cite: 101]. Ciascun amministratore, sulla base delle informazioni ricevute dall'organo delegato, deve valutare l'andamento della gestione (art. 2381, terzo comma c.c.) ed è ragionevole ritenere che in caso di fondati dubbi non chiariti in Consiglio possa chiedere ulteriori informazioni e documenti anche ai dirigenti della società[cite: 109]. E proprio attraverso tali adempimenti che si ritiene possibile venire a conoscenza di "fatti pregiudizievoli" o comunque di escludere ex post una colpevole ignoranza degli stessi (11)[cite: 110, 116]. Si tratta di poteri/facoltà che certamente sono riconosciuti anche in capo a ciascun membro del Consiglio di Amministrazione all'interno del quale non sono state rilasciate deleghe[cite: 111]. In questa ipotesi, tuttavia, la responsabilità di ciascun consigliere è molto più ampia e si confonde con quella degli altri membri[cite: 112]. Di conseguenza si ritiene che in questi casi la facoltà degli amministratori di chiedere informazioni, sia all'interno che all'esterno del Consiglio, diventi di fatto un obbligo (se si vuole escludere o attenuare la propria responsabilità per gli illeciti commessi dagli altri consiglieri)[cite: 113]. Si aggiunga poi che il dovere di agire informati acquista naturalmente un contenuto molto più ampio e incisivo nei confronti dei consiglieri delegati rispetto all'esercizio dei poteri loro attribuiti con delega[cite: 114]. Questi, infatti, per non incorrere in responsabilità, devono assumere cautele ben più ampie prima di ogni decisione, anche al fine di evitare operazioni di pura sorte, ovvero la violazione di leggi, non solo di natura penale (12)[cite: 115, 119].

4. I segnali d'allarme: un possibile significato.

Una volta compresa l'importanza del dovere di diligenza, diventa fondamentale comprendere quali possano essere i "segnali di allarme" del rischio di commissione di fatti pregiudizievoli da parte di altri consiglieri (13)[cite: 123], la cui conoscenza, secondo costante giurisprudenza, determina la responsabilità anche dei non delegati[cite: 123]. La normativa non detta invero alcuna specifica indicazione, né fornisce una chiara definizione dei segnali d'allarme[cite: 124]. Tuttavia, in primo luogo, può trarsi spunto dall'art. 2381, comma 5 c.c. secondo il quale gli organi delegati "riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate"[cite: 125, 126]. Un segnale d'allarme deve pertanto ravvisarvi nell'omissione, nella vaghezza o nel ritardo dell'amministratore delegato nel riferire al Consiglio nei termini previsti dall'art. 2381, comma 5 del Codice civile[cite: 127, 128]. In secondo luogo, si ritiene che possano ricomprendersi nel concetto di "segnale di allarme", le irregolarità e anomalie significative riscontrate nella gestione della società e nei rapporti con il mercato e con i terzi[cite: 128]. A mero titolo esemplificativo ma non esaustivo, si segnalano: il compimento di operazioni estranee all'oggetto sociale o prive di giustificazione; la realizzazione di operazioni rilevanti senza il previo svolgimento di alcuna istruttoria o analisi; la gestione personalistica dell'impresa o l'interesse taciuto nell'operazione da parte degli amministratori o di loro parti correlate; incongruenze contabili nelle voci di bilancio; il ricorso costante o cospicuo a finanziamenti soci o la mancata ricapitalizzazione; rilievi mossi dal collegio sindacale, dalla società di revisione o dall'organismo di vigilanza 231; le richieste di accesso da parte dei soci alla documentazione societaria; rilevante e persistente crisi di liquidità; sanzioni amministrative ai sensi del D.Lgs. 231/2001; comportamenti anomali o elusivi da parte degli amministratori delegati o dei soggetti apicali[cite: 129, 130, 131, 132, 133, 134, 135]. In presenza di uno di tali indici, o in assenza di informazioni complete da parte dei delegati, l'amministratore non esecutivo ha l'obbligo di chiedere informazioni precise ed ulteriori agli amministratori delegati e agli altri componenti, soprattutto prima di esprimere il proprio voto in Consiglio[cite: 136]. Qualora dalle informazioni acquisite emergesse, anche solo il sospetto, che altri membri del Consiglio di Amministrazione stanno compiendo o hanno compiuto fatti pregiudizievoli, l'amministratore privo di deleghe, al fine di escludere la propria responsabilità (civile e penale), deve attivarsi per impedire il compimento degli stessi o quantomeno dissociarsi dalle condotte altrui, ad esempio esprimendo e facendo annotare il proprio dissenso nei libri delle adunanze[cite: 141]. Sebbene la normativa richiamata si riferisca solo ai Consigli di Amministrazione con membri delegati al suo interno (laddove appunto, impone soltanto a questi di riferire periodicamente agli altri componenti), si ritiene che l'omissione, la vaghezza o il ritardo nel fornire le informazioni richieste nonché le varie ipotesi di segnali d'allarme elencate, siano fondamentali per tutti gli amministratori di società (quindi anche in presenza di un Consiglio di Amministrazione senza deleghe), in quanto permettono un (fondamentale) vaglio sulla correttezza della gestione societaria[cite: 142]. Peraltro, a conclusione del presente paragrafo appare utile introdurre un apprezzabile punto di arrivo della giurisprudenza di legittimità sulla definizione del concetto di "segnali di allarme inequivocabili"[cite: 143]. Con una recente sentenza, la Corte di cassazione, pronunciandosi al termine di un processo per alcuni fatti di bancarotta, ha chiarito che "ai fini della configurabilità del concorso dell'amministratore privo di delega per omesso impedimento dell'evento, è necessario che, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite poste in essere dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell'effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di 'segnali di allarme' inequivocabili dai quali desumere l'accettazione del rischio - secondo i criteri propri del dolo eventuale - del verificarsi dell'evento illecito e, dall'altro, della volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento" (14)[cite: 144, 145]. Ciò in quanto la responsabilità dell'amministratore senza deleghe, a titolo di concorso nel reato degli altri componenti delegati del Consiglio di Amministrazione, "non può fondarsi sulla sola posizione di garanzia e discendere, tout court, dal mancato esercizio dei relativi doveri di intervento"[cite: 146]. La sua responsabilità è piuttosto configurabile ove, essendo a conoscenza di segnali di allarme o di fatti pregiudizievoli, o potendone essere a conoscenza con la dovuta diligenza, "l'omesso intervento abbia avuto effettiva incidenza di contributo causale nella commissione del reato da parte dei consiglieri con delega. Ciò comporta che, compiuto il giudizio controfattuale necessario ai fini dell'affermazione della responsabilità omissiva impropria, il giudice di merito è tenuto a verificare se, qualora fossero state compiute dal consigliere senza delega le doverose attività di intervento, si sarebbero ugualmente realizzate le condotte integranti reato ascritte agli amministratori con delega" (15)[cite: 147, 149].

5. I principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza in commento.

La Corte di cassazione con la sentenza in commento ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall'imputato, amministratore di un Consiglio privo di organi delegati, ritenendo sussistente il fumus, e quindi "potenzialmente" integrati i reati tributari contestati[cite: 149]. Tale conclusione segue il percorso normativo indicato dal Codice civile e sopra illustrato[cite: 149]. La sentenza in commento, infatti, dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 2392 e 2381 del Codice civile afferma che "dovendosi distinguere l'ipotesi in cui il consiglio di amministrazione operi con o senza deleghe, deriva dal suddetto assetto normativo che, a meno che l'atto non rientri nelle attribuzioni delegate al comitato esecutivo o taluno dei consiglieri che ne sono parte, tutti i componenti del consiglio di amministrazione rispondano - salvo il meccanismo di esonero contemplato dal terzo comma dell'art. 2392, cod. civ., che prevede l'esternazione e l'annotazione dell'opinione in contrasto da parte del consigliere dissenziente nonché immune da colpa - degli illeciti deliberati dal consiglio, anche se in fatto non decisi o compiuti da tutti i suoi componenti" (16)[cite: 150, 151]. In altre parole, la Corte afferma che, rispetto ai casi in cui non siano state conferite deleghe internamente al Consiglio, tutti gli amministratori rispondono solidalmente per gli illeciti commessi da uno di essi, se non provano di aver richiesto informazioni e manifestato la loro dissenting opinion, annotata sul verbale dell'adunanza del Consiglio di Amministrazione[cite: 151]. Dopo questo passaggio, la Corte conclude però ampliando i doveri imposti agli amministratori, statuendo che "in tema di reati tributari, dunque, nel caso di delitto deliberato e direttamente realizzato da singoli componenti il consiglio di amministrazione, nel cui ambito non sia stata conferita alcuna specifica delega, ciascuno degli amministratori risponde a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento, ove sia ravvisabile una violazione dolosa dello specifico obbligo di vigilanza e di controllo sull'andamento della gestione societaria derivante dalla posizione di garanzia di cui all'art. 2392, cod. civ." (17)[cite: 152, 153]. Tale conclusione risulta invero molto più ampia di quanto sancito dalle norme del Codice civile sopra illustrate[cite: 153]. Come noto, infatti, l'art. 2392 c.c. impone oggi in generale - a tutti gli amministratori, solo un dovere di diligenza, mentre è scomparso, a seguito della riforma del 2003, il "dovere di vigilanza" in ordine all'operato degli amministratori e così pure un ampio dovere di controllo in ordine all'andamento della gestione societaria[cite: 154, 155]. La riforma, infatti, ha modificato il precedente sistema di doveri, non tanto con la ratio di alleggerire la posizione degli amministratori non delegati, quanto piuttosto di individuare la responsabilità degli stessi in relazione ai poteri e doveri che effettivamente caratterizzano l'incarico assunto[cite: 156]. Si tratta di una considerazione che trova invero applicazione anche rispetto ai membri dei Consigli di Amministrazione al cui interno non siano state rilasciate deleghe gestorie[cite: 157]. Nessuna norma prevede, infatti, a loro carico obblighi maggiori e più penetranti[cite: 158]. A ben vedere, però, anche alla luce della sentenza in commento, in tali ipotesi il consigliere deve necessariamente svolgere un controllo più pregnante sulle scelte e sull'operato degli altri[cite: 159]. La sua, infatti, è una responsabilità solidale che viene meno solo se la mancata vigilanza e controllo sono dovuti a colpa, ovvero conseguenti a negligenza, imprudenza o imperizia[cite: 160].

6. La responsabilità per i reati tributari dichiarativi dei componenti del Consiglio di Amministrazione senza deleghe.

La Corte di cassazione invero aveva già avuto modo di esprimersi sulla responsabilità degli amministratori per i reati tributari laddove non fossero state conferite deleghe a membri del Consiglio di Amministrazione[cite: 161, 162]. Con sentenza n. 30689 del 4 maggio 2021, la Suprema Corte si era pronunciata proprio in un caso analogo, a seguito del rigetto del riesame di un provvedimento di applicazione di una misura cautelare reale ai membri di un Consiglio di Amministrazione privo di deleghe, in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti[cite: 163]. In tale occasione la Corte aveva precisato che "in assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione del Consorzio, deve (con giudizio rebus sic stantibus, proprio di questa fase cautelare) ritenersi gravante su tutti i consiglieri, come sopra rilevato, la responsabilità solidale per gli illeciti deliberati o posti essere dal consiglio di amministrazione, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi" (18)[cite: 164, 166]. In particolare, però, la Corte precisava che su ciascuno di essi "grava una posizione di garanzia di cui all'art. 2392 cod. civ." e "proprio perché investito, al pari di ogni altro componente del consiglio di amministrazione, dei compiti di amministrazione diretta, aveva uno specifico obbligo di vigilanza, quand'anche di fatto le determinazioni sul conferimento dei sub-appalti e sui conseguenti obblighi tributari non fossero state da costui direttamente assunte, sull'andamento della gestione societaria o a titolo di dolo generico per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o, comunque, a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino" (19)[cite: 165, 167, 166]. Si tratta, com'è evidente, di una conclusione che sembra estendere ancor più i confini della responsabilità dei componenti del Consiglio di Amministrazione a cui non siano state conferite deleghe, individuando, oltre ad un generale dovere di vigilanza sull'andamento della gestione societaria, anche una responsabilità di tipo omissivo per la violazione dei doveri imposti agli amministratori (tra cui appunto il dovere di vigilanza e controllo sugli altri consiglieri)[cite: 167, 168]. Non solo, secondo tale precedente giurisprudenziale sembrerebbe sussistere di fatto anche una sorta di responsabilità da posizione (quella che era stata censurata dall'imputato nella recente sentenza oggetto del presente articolo) scaturente dal solo fatto di aver accettato di ricoprire la carica[cite: 169]. In altre parole, indipendentemente dal dovere di diligenza e di vigilanza, secondo questo precedente, il componente del Consiglio di Amministrazione privo di deleghe risponde nei confronti della società per le sanzioni conseguenti a reati tributari anche solo per aver accettato di ricoprire tale incarico[cite: 170]. Sul punto, siano consentite due considerazioni[cite: 171]. Se la conclusione, che recupera il generale dovere di vigilanza, anche se in assenza di un riferimento letterale normativo, risulta comunque coerente con il contenuto delle norme del Codice civile in materia (i)[cite: 171]; desta invece forte perplessità la conclusione per cui la responsabilità consegue soltanto all'accettazione dell'incarico (ii)[cite: 172]. Rispetto alla prima considerazione, nel caso di Consiglio di Amministrazione privo di deleghe, il dovere di diligenza disciplinato dall'art. 2392 c.c. non può che tradursi di fatto in un generale controllo sull'operato di tutti gli altri consiglieri, soprattutto se si considera che rispetto ai reati tributari dichiarativi normalmente la dichiarazione fiscale viene sottoscritta da un membro soltanto[cite: 173, 174]. Ne consegue che la mera richiesta di informazioni (o un dovere di diligenza generale non accompagnato dalla vigilanza sugli altri membri) non può garantire l'emersione di fatti pregiudizievoli o quantomeno di segnali d'allarme che, invece, potrebbero essere rilevati mediante controlli specifici (ad esempio l'analisi della dichiarazione fiscale e della documentazione contabile a supporto della stessa, ovvero un confronto con il soggetto preposto alla redazione delle dichiarazioni fiscali o ancora del soggetto che si occupa delle contabilità)[cite: 175].

7. La responsabilità per i reati tributari dichiarativi dei componenti del Consiglio di Amministrazione con deleghe.

Per ragioni di completezza, si sottolinea che nel caso di conferimento di deleghe da parte del Consiglio, gli amministratori non esecutivi rispondono invece dei reati dichiarativi non per il ruolo assunto ma soltanto se erano effettivamente a conoscenza di fatti pregiudizievoli e non si sono attivati per impedirne il compimento o eliminarne le conseguenze[cite: 178, 179]. Ciò è quanto stabilito anche da una recentissima sentenza la Corte di cassazione secondo cui "sembra ragionevole ritenere che gli amministratori di una società i quali non abbiano sottoscritto una dichiarazione fiscale fraudolenta mediante l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, perché vi avrebbe provveduto un altro di essi nell'esercizio di funzioni a lui attribuite anche "in concreto", rispondono in concorso del reato di cui all'articolo 2 Decreto Legislativo n. 74 del 2000 solo se abbiano avuto conoscenza dell'inserimento di tali documenti mendaci in contabilità e, ciononostante, non si siano attivati per impedirne l'indicazione nella dichiarazione o per impedire la presentazione di questa" (20)[cite: 180, 181]. E quindi evidente come il conferimento di deleghe specifiche riduca notevolmente la responsabilità degli amministratori non esecutivi, riducendo conseguentemente doveri e obblighi ad essi imposti dalla legge[cite: 181].

8. Operazioni giuridicamente inesistenti.

Infine, per quanto concerne il secondo tema oggetto della sentenza in commento, la Suprema Corte afferma l'esistenza del fumus commissi delicti del reato di utilizzo ed emissione di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti, sulla base della costante giurisprudenza in materia[cite: 182]. La difesa aveva chiesto di fatto la rivalutazione del merito del provvedimento impugnato in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell'indagato, non ritenendo sussumibile il fatto nella previsione di cui all'art. 2 D.Lgs. 74 del 2000[cite: 183, 184]. I giudici di legittimità, nel rigettare la doglianza, hanno invece ricordato che le "fatture per operazioni inesistenti sono anche quelle che si connettono al compimento di un negozio giuridico apparente diverso da quello realmente intercorso tra le parti" (21)[cite: 184, 186]. Di conseguenza la fattura "deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti i dati significativi, sicché assume rilevanza anche l'inesistenza giuridica, la quale si verifica ogni qualvolta la divergenza tra la realtà e la rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura con ciò determinandosi una alterazione del contenuto contabile" (22)[cite: 187]. Invero, elemento necessario per la rilevanza penale di questa fattispecie, considerato certamente in modo implicito dalla Corte nella sentenza in commento, è che la divergenza tra il documento e la prestazione effettiva deve aver determinato l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto[cite: 188]. Diversamente, infatti, non avrebbe alcuna rilevanza penale la differenza tra l'oggetto della fattura e la prestazione effettivamente resa[cite: 189]. Ciò si ricava proprio dalla lettera della norma di cui all'art. 2 D.Lgs. 74 del 2000 che punisce chi, "al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi"[cite: 190, 191]. L'elaborazione della categoria delle operazioni giuridicamente inesistenti è ancorata invero alla definizione contenuta all'art. 1, comma 1, lett. a) del D.Lgs. 74 del 2000, secondo il quale per "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si intendono quelli 'emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi"[cite: 192, 193]. Da ultimo, preme evidenziare come la pronuncia in commento, individui gli elementi sui quali il Tribunale del riesame aveva fondato l'esistenza del fumus, e quindi quelli che a suo dire permetterebbero di sussumere il fatto nell'ipotesi di cui all'art. 2 D.Lgs. 74 del 2000[cite: 194, 195]. In relazione alle società emittenti (formalmente) appaltatrici, era stata infatti riscontrata: l'irregolarità nelle fatture (indicazioni generiche delle prestazioni rese); l'identità delle sedi legali delle varie società coinvolte; Imancanza di utenze, locali o beni in affitto o in comodato; l'erronea registrazione delle fatture in contabilità; l'assenza di dipendenti; l'omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali[cite: 195, 196].

9. Conclusioni.

È evidente come la sentenza in commento, e tutti i precedenti sul punto, stimolino una profonda riflessione in ordine alle responsabilità che l'assunzione del ruolo di membro del Consiglio di Amministrazione di una società porta inevitabilmente con sé[cite: 198, 199]. Certamente, dall'analisi sopra svolta, emerge che nel caso di amministrazione effettuata collegialmente dal Consiglio perché non vi è stato alcun conferimento di delega al suo interno, ciascun amministratore, per non incorrere in responsabilità civili ma soprattutto penali, ha l'obbligo di svolgere una indagine e un controllo effettivo, attento e costante sull'operato degli altri consiglieri e ciò al fine di impedire eventuali fatti pregiudizievoli[cite: 200]. Infatti, se la mera accettazione dell'incarico è sufficiente per rispondere delle condotte altrui, l'unico modo per evitare la responsabilità è impedire la commissione di fatti illeciti o eliminarne le conseguenze dannose[cite: 201]. Ad esempio, nel caso oggetto della sentenza in commento, il consigliere qui indagato avrebbe dovuto vigilare sull'operato degli altri membri del Consiglio di Amministrazione e, esercitando i poteri di controllo, accorgersi della difformità tra contratto e prestazione ovvero di altri segnali d'allarme e, quindi intervenire immediatamente per contrastare le attività in corso o quanto meno per correggere le dichiarazioni fiscali[cite: 202, 203]. Solo così avrebbe potuto evitare il sequestro preventivo sui suoi beni (e la successiva eventuale confisca)[cite: 204]. È evidente però come si tratti di un adempimento di complessa e difficile realizzazione pratica[cite: 205]. Ne consegue che la mera suddivisione di compiti tra i consiglieri, non accompagnata da una formale delega di funzioni con delibera consiliare ad hoc, non consente alcun esonero dalla responsabilità per i fatti commessi da altri, con tutte le conseguenze derivanti in sede penale e civile[cite: 206].

Milano, 25 maggio 2025

Avv. Rossana Lugli

Estratto da RIVISTA DEI DOTTORI COMMERCIALISTI, Anno LXXIV, Fasc. 4-2023 [cite: 1]



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